Il crocifero. Crux-fero

 Il crocifero. Crux-fero

Dal latino tardo crucĭfer -fĕri, composto di crux -ucis «croce» e -fer «-fero» («portare»).
Definizione 1) Agg. “Che porta la croce”.
Definizione 2) Sost. “Personaggi emblematici della Settimana Santa nojana (e non solo)”.
Uomini vestiti di un lungo saio nero, il capo coronato di spine, il volto coperto da un cappuccio che lascia
spazio solo a due fori per gli occhi, i piedi scalzi cui viene legata una catena di ferro, che risuona, pesante,
per le strade del paese, si caricano sulle spalle il peso di una croce, che può addirittura raggiungere i 55 kg
di peso.


Il mio intento in questo articolo è di ripercorrere le origini, il sentimento religioso e popolare, il valore emotivo per il popolo nojano che si celano dietro le figure quanto mai affascinanti dei crociferi, attraverso le parole e l’esperienza di colei che di Settimana Santa si è occupata per tutta la vita, colei in cui si convoglia
l’eredità di tradizioni e riti dei tempi passati e che, quotidianamente, si impegna affinché questa eredità
non rimanga seme incoltivato, ma bensì germogli all’interno delle generazioni successive: Rita Tagarelli.
È doveroso precisare, prima di riportare gli esiti di questa sorta di “intervista”, che, di comune accordo,
abbiamo evitato di ritrovarci a ribadire storie e concetti che fanno parte del bagaglio non solo culturale, ma
anche squisitamente emotivo del popolo di Noicattaro ormai da secoli; al contrario, ci siamo intrattenute
su aspetti forse più nascosti e velati relativi alla figura del crocifero, certo più difficilmente reperibili sul web.

Innanzitutto ci siamo soffermate a discutere sull’origine di tali figure, che non pone le sue fondamenta in
territorio autoctono nojano, ma bensì in una terra geograficamente un po’ distante dalla nostra: la Spagna.
Infatti, si riconduce alla dominazione spagnola in Italia, risalente al 1600, l’introduzione nei riti pasquali di
Noja dei personaggi dei viacroci; ancora oggi, a dire il vero, le celebrazioni quaresimali spagnole (in
particolare quelle di Siviglia), con i loro viacroci incappucciati, sono tremendamente simili alle nostre. Ad
essere sinceri, però, tutto rimane storicamente poco documentato, ammette Rita, sospeso nel “si dice”
popolare. Circola infatti un racconto, ambientato proprio durante la dominazione degli spagnoli in Puglia,
che narra di un personaggio nobile del nostro paese, spagnolo di provenienza, che, per non interrompere le
pratiche devozionali della sua terra, durante la Quaresima si fece costruire una croce ad hoc e, scalzo, con
quello che poi sarebbe diventato il caratteristico saio nero, per primo calcò le strade di Noja, compiendo il
suo pellegrinaggio, carico del suo fardello.
In realtà, rimanendo sulla via di pure e semplici congetture simili alla precedente, si ipotizza che il crocifero
possa essere addirittura un personaggio pre-seicentesco: per affermare ciò, dobbiamo far riferimento ad
un rito compiuto dal viacroce che, dopo essersi fermato presso una Chiesa, come tappa “della sua, intima e
personale, Via Crucis”, e aver appoggiato il pesante legno sul portale, vi entra e raggiunge in ginocchio il
Tabernacolo, impartendosi la cosiddetta “d-sc-plei-n” (la disciplina), cioè un’autoflagellazione utilizzando la
sua catena, prontamente slegata dalla caviglia. Questa pratica, come mi spiega Rita, potrebbe connotare un
aspetto assolutamente tipico del periodo medioevale, dato che sembra richiamare l’espiazione dei peccati
corporali. Infatti, ritornando ai nostri crociferi, il vocabolo “d-sc-plei-n”, secondo alcune illazioni, potrebbe
riportare alle Congreghe umbro-toscane dei Disciplinati (o Flagellanti), attive tra il 1310-1365, e collegate
alla figura di Niccolò degli Acciaiuoli, la cui famiglia, mi svela Rita senior sulla base delle ricerche del padre,
fu signora di Noja. È il cerchio che si chiude?

Successivamente ci siamo soffermate sull’etimologia della parola: è vero, come prima è stato specificato,
che la parola “crocifero” deriva da un vocabolo appartenente al latino tardo, ma questo non è l’unico
termine che i nojani utilizzano per riferirsi a tali figure: infatti in dialetto il crocifero è detto “viacrao-c” (“il
viacroce”), che apparentemente non ha granché a che fare con l’etimologia della forma meno gergale.
Allora, perché il dialetto nojano sceglie proprio questo vocabolo per indicare i crociferi? Perché non si è
banalmente scelto di utilizzare una semplice parola composta come “porta-craoc” (un po’ come per
portalettere)? Una delle risposte può essere sorprendente: come abbiamo già specificato, la tradizione dei
viacroci affonda le sue radici in una terra (sottolineerei, apparentemente) lontana dalla nostra, quale la
Spagna. Ebbene, in Spagna, la Congrega di incappucciati che si occupa a Siviglia dello svolgimento di tali riti
viene chiamata “Hermandad de Vera Cruz”… Secondo alcuni studiosi potrebbe essere individuata una certa
assonanza tra il nome della Congrega e il termine nojano di “viacrao-c”. Ovviamente questa è solo una delle
possibili ipotesi: infatti altri studiosi che in passato si sono interessati alla vicenda hanno anche riscontrato
un possibile, anzi ovvio, richiamo alla “Via Crucis” evangelica, che sarebbe stata letteralmente translitterata
nel gergo dialettale. D’altronde, cos’è che i viacroci fanno, se non rivivere, con lo spirito, nell’intimo del
cuore, e col corpo, con i piedi scalzi e gli omeri doloranti, l’esperienza della Via Crucis di Cristo?
L’ultimo punto su cui io e Rita ci siamo confrontate durante la preziosa chiacchierata è, oserei dire, forse il
più importante dell’intero incontro. Ci siamo poste a vicenda una domanda: com’è possibile che, dopo
quasi 400 anni, nel caso in cui accreditassimo l’ipotesi dell’origine spagnola, la tradizione del
“pellegrinaggio” dei “viacreu-c” è ancora così radicata nello scenario della Settimana Santa nojana? Cosa
spinge gli abitanti di Noicattaro ad imbracciare la Croce e, sopportando tutto ciò che ne consegue, a
ripercorrere le orme di Cristo con le loro?

In totale onestà, non siamo state in grado di darci una risposta univoca. Anche perché, come è ovvio che
sia, si tratta di una scelta estremamente intima e individuale, che può ammettere qualsiasi tipo di
giustificazione. Rimane, tuttavia, indubbia la presenza di un fondo di religiosità che muove gli uomini a
scegliere di vestire quel saio, durante i “Sepolcri” del giovedì o durante le diverse processioni di quei giorni.
Si tratta di un sentimento profondo e ben radicato negli animi, che può indicare (contemporaneamente e
non) una religiosità puramente evangelica ed un’altra che potremmo definire “ancestrale”. Senza scendere
troppo nel merito e senza generalizzare inutilmente, diciamo che cingersi il capo di spine, caricarsi del peso
di una croce, simbolo del proprio peccato, rappresentano per molti non solo un riscatto, ma anche un
tentativo di rivivere la Passione, di seguire i precetti della vera e propria “Imitazione di Cristo1”, che ci
esorta ad imitare la Sua vita e la Sua condotta, se vogliamo essere veramente illuminati e liberati da ogni
cecità interiore (“De imitatione Christi”, Cap. I). Chi segue me non cammina nelle tenebre (Gv 8,12), dice il
Signore. Così, la figura del crocifero assume forse una connotazione assai meno folkloristica e ben più
spirituale di quanto comunemente si sia portati a pensare. Allo stesso tempo, gli stessi atti possono essere
sentiti come l’ossequio di un mandato, passato da padre in figlio, da nonno in nipote, di generazione in
generazione, seguendo così un retaggio che sostanzialmente muove le azioni dei penitenti.
In ogni caso, qualsiasi tipo di definizione sarebbe azzardata.
In conclusione, vorremmo esprimere quanto sia emblematico il fatto che siamo state proprio noi due,
un’adolescente ed una veneranda, appartenenti a due generazioni distanti, non solo a livello temporale ma
anche a livello di sistema di valori incarnati, a occuparci di questo tema: questo scritto vuole essere –
mentre scrivo, mi dice Rita senior – un intervento parenetico, che esorti tutti noi giovani a non abbandonare
questi riti, a lasciarci sempre affascinare, innamorare e smuovere dall’interno, affinché il seme depositato
lasci sempre buoni frutti.